VIAGGIO SULL ISOLA DI FAVIGNANA, TERRA DI TUFI E MARE DI TUFFI
È lo storiografo greco Polibio a raccontare con dovizia di particolari gli eventi della prima guerra punica. Dice che, dopo 23 anni di conflitto, vista l’inazione del potere centrale, un gruppo di cittadini decide di allestire una flotta con mezzi propri per affrontare le forze cartaginesi. Vengono costruite 200 navi e arruolati 60 mila marinai. Al comando del console Gaio Lutazio Catulo, il 10 marzo del 241 a.C. si ha lo scontro decisivo. I romani catturano 70 imbarcazioni nemiche, mentre un’altra cinquantina affonda durante i combattimenti. La potenza nordafricana è costretta a lasciare la Sicilia e, subito dopo l’ignominiosa sconfitta, condanna l’ammiraglio Annone al supplizio della croce. Con le casse statali ormai vuote tenta di ottenere un prestito dal re dell’Egitto per continuare la sfida che ha in palio la supremazia nel Mediterraneo, ma alla fine Amilcare Barca deve firmare un oneroso trattato di pace. Il luogo del cruentissimo conflitto si verifica presso le coste di Egusa, e precisamente nello specchio di Cala Rossa, che secondo la leggenda si chiama così proprio in ricordo del colore assunto dalle acque a causa dell’incredibile quantità di sangue versato dai due schieramenti in lotta.
Sui fondali della zona si trovano tuttora decine di relitti delle imbarcazioni naufragate. Ma i costi delle ricerche subacquee rendono assai oneroso il loro recupero. D’altro lato, una volta riportate a galla, sorgerebbero seri problemi tecnici di conservazione dei resti lignei, che senza complessi trattamenti sono condannati a dissolversi in poco tempo. In ogni modo è del 26 giugno 2008 il ritorno alla luce d’un frammento di quella pagina cruciale: un rostro bronzeo usato come mezzo di sfondamento per creare delle falle nelle fiancate delle unità nemiche.
Oggi l’isola testimone dell’epico conflitto è conosciuta con il nome di Favignana, scelto per rendere omaggio al favonio, il vento caldo e secco che la accarezza lungo buona parte dell’anno. È la sorella maggiore delle Egadi, l’arcipelago trapanese che comprende anche Marettimo, Levanzo e i due scogli di Formica e Maraone.
La sua forma evoca le fattezze d’una farfalla posata sulle acque con al centro l’altura di Santa Caterina e ai lati due ampie ali di tavolato calcareo. È abitata da 7 mila anni, ossia da quando, con lo sciogliersi dei ghiacci e l’innalzamento dei mari, si stacca dalla Trinacria allontanandosi dalla costa di circa 8 miglia. La principale ricchezza del territorio è costituita dalle “mafie”, un termine d’origine araba che qui non indica Cosa Nostra e gli uomini d’onore ma più semplicemente le cave di tufo. Si tratta d’una risorsa conosciuta e sfruttata fin dall’antichità, come rivela la zona archeologica di San Nicola, dove sono visibili i resti d’una specie di piscina battezzata “il bagno delle donne”.
Il prelievo e la trasformazione della bianca pietra locale caratterizza un po’ tutte le epoche scandite dalle dominazioni che si susseguono. Si parte con gli arabi, come rivelano i ruderi nella zona della Torretta e il castello di San Leonardo. Proseguono i normanni, che con Ruggero II irrobustisce le opere difensive musulmane e fa erigere la rocca di San Giacomo. Altri segni indiscutibili lasciano angioini, spagnoli e liguri. Le tecniche lavorative si perpetuano senza grossi cambiamenti nel corso dei secoli. Il rito inizia sempre alle prime luci dell’alba. Una schiera di lapicidi, che nel vernacolo locale sono i pirriaturi, raggiunge l’area estrattiva. Accanto a loro si muovono manovali, carrettieri e marinai, chiamati al trasporto del materiale. L’attività è a cottimo. La paga varia infatti a seconda del numero di conci realizzati nell’arco della giornata. Non è pertanto raro che insieme con il padre operino figli e nipoti, compresi quelli in tenera età. Quanto ai pasti, spesso si riducono a pane e cipolla o fichi secchi. L’arnese più in uso è la mannara, una particolare specie di ascia per segnare le tracce sulle porose pareti di biocalcarenite e poi ricavare i blocchi. I quali vengono spostati con il maganeddu, vale a dire un argano di legno, e tramite il passamano raggiungono gli scafazzi, cioè le grosse barche a remi o a vela che coprono le diverse tratte commerciali partendo da Puntazza, Burrone, Canaleddi, Punta Marsala Bue Marino e altri scali litoranei.
Lo sviluppo di questa voce dell’economia dura fino alla metà del secolo scorso. Poi, nonostante gli sviluppi tecnologici, comincia un progressivo declino. Da un lato i costi logistici divengono sempre più proibitivi. Dall’altro gli addetti preferiscono cercare occupazione nel variegato mondo del turismo, che promette retribuzioni più decorose e soprattutto minore fatica. I giacimenti tufacei continuano comunque a giocare un ruolo di rilievo, anche se in condizioni assai diverse. Le macchine che sostituiscono gli antichi utensili garantiscono infatti una produzione non trascurabile, pur senza richiedere la manodopera d’un tempo.
Fonte: alibionline.it
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